Dalla paura di Tel Aviv all’odio in Italia: il Pride come simbolo di pace da difendere da strumentalizzazioni e speculazioni locali e nazionali.
di Antonello Sannino
Molti di voi sanno che per alcuni giorni siamo rimasti bloccati a Tel Aviv in seguito all’attacco di Israele contro il regime teocratico, sanguinario e oppressivo degli Ayatollah iraniani. Siamo riusciti a rientrare nel nostro Paese solo venerdì 20 giugno; purtroppo, lo stato di guerra non garantiva un rimpatrio sicuro. Il nostro rientro è avvenuto dopo un lungo viaggio nel deserto, attraverso l’Egitto e la Turchia. Abbiamo vissuto giorni di crescente ansia e paura, scanditi da sirene e fughe nel rifugio notturno più vicino. Nel frattempo, in Italia, lo scontro si alimentava e si “sputava odio”, puntando un pericoloso faro sulla nostra condizione. Forse non è un caso che siamo stati l’ultima delegazione a lasciare l’hotel.
Ero lì, su invito di un amico napoletano, per incontrare attivisti e associazioni LGBTQIA+ israeliane e per ascoltare testimonianze dirette di ebrei, palestinesi e arabi sullo stato dei diritti civili in Israele. Venerdì si sarebbe dovuto svolgere il Pride. Voglio ricordare che Israele ospita l’unico Pride in una regione dove le persone LGBTQIA+ sono condannate a pene durissime, inclusa la morte. Molti Pride, purtroppo, si svolgono in prossimità di scenari di guerra perché, senza cadere nel peggior cliché del Pride come festa e carnevalata, nella musica e nei colori del Pride c’è una risposta autentica e pacifica alla violenza e all’oppressione. Una risposta che evidentemente spaventa e che forse non è compresa fino in fondo nemmeno da chi organizza e partecipa ai Pride. Si trattava di un Pride coraggioso, dove in tanti erano pronti a manifestare dissenso nei confronti delle scelte politiche del governo israeliano in carica.
Tuttavia la segreteria nazionale di Arcigay, piuttosto che riflettere sulla sempre più scarsa capacità di incidere sull’agenda politica della nostra classe dirigente nazionale, come dimostrato plasticamente anche dall’episodio grottesco dell’incontro con la ministra Roccella, ha deciso di provare a “cavalcare” la piazza pro-Palestina anche per alimentare disagio e disordine all’interno di due dei maggiori Pride italiani, “colpevoli” di avere la capacità di portare in piazza centinaia di migliaia di persone e magari di incidere sulle scelte politiche locali e nazionali. La guerra e le divisioni nei Pride vengono così usate per “conquistare la piazza” e schiacciare la libertà di espressione e di pensiero di chi non si allinea a logiche di pensiero unico o non è funzionale agli schemi di potere.
A Roma prima e la segreteria nazionale di Arcigay poi si interviene per provare a strumentalizzare sia il Pride sia, ancor peggio, la crescente e doverosa richiesta di pace e di condanna della guerra. La guerra è così diventata uno strumento di offesa per attaccare il Roma Pride e il Napoli Pride.
Gli “odiatori social”, le associazioni, i movimenti antagonisti, e Arcigay stessa, pur partendo da posizioni diverse, storicamente in conflitto, hanno tutti trovato la stessa finalità: provare a prendere il possesso e il controllo dei Pride delle grandi città e uniformare il pensiero critico. Tutto ciò senza alcun sincero interesse a favorire un reale processo di pace. Le richieste di pace in Palestina e in Medio Oriente diventano così solo un mezzo per polarizzare il consenso o per costruire e difendere posizionamenti politici e partitici.
Antinoo Arcigay Napoli ha espresso chiaramente la propria posizione contro tutte le guerre e di condanna dello sterminio in atto presso la popolazione civile in Palestina. Una posizione per la pace priva di tutti quei simboli, bandiere, slogan e terminologie utili solo ad aumentare le distanze e ad alimentare il conflitto.
In quei giorni a Tel Aviv, da un rifugio, dopo l’ennesimo allarme, mentre il rombo degli aerei sopra di noi ci ricordava il dramma della guerra, avevo scritto alcune riflessioni che non ho più reso pubbliche per ragioni di sicurezza (non solo mia) e che ora riporto a seguire.
“Sono qui per scelta, da libero cittadino, senza etichette o rappresentanze. Ho accettato di venire nonostante le minacce quotidiane che ricevo in Italia; l’ho fatto per difendere la mia libertà di pensiero. Sono qui, invitato da amici napoletani, per far parte di una delegazione libera e indipendente, osservatori di ciò che succede in questo Paese lontano e allo stesso tempo terribilmente vicino, più di quanto immaginiamo.
Siamo in tanti qui, attiviste e attivisti queer provenienti da ogni angolo del mondo: Europa, America, Australia, Cina, India, Brasile, Colombia. Ci sono associazioni e attivisti LGBTQ+ israeliani pcritici nei confronti delle politiche di guerra del loro governo, e ci sono attivisti queer palestinesi e arabi che proprio in Israele trovano rifugio. Tutte e tutti qui con l’anima più autentica del Pride, per difendere quei valori irrinunciabili di libertà, eguaglianza, sorellanza e pace, vicini a tutti i popoli e alle soggettività oppresse, contro la violenza del potere e dei potenti che ogni giorno giocano con le nostre vite e la nostra felicità.
In Italia mi chiedono perché sia voluto venire in Israele, pur conoscendo i rischi. La risposta è che il valore più importante della mia vita è la libertà, e che non può esserci libertà senza partecipazione. Avevo il bisogno vitale di vedere e sentire con i miei occhi, qui, non da casa mia. Essere qui è, per me, in piena coerenza con la storia della mia storia e delle mie battaglie per la difesa dei diritti civili e umani delle persone LGBTQIA+ e in difesa del valore della legalità, contro ogni forma di criminalità. Vengo da una terra di camorra, sono di Torre Annunziata, e rivendico con orgoglio anche questa mia appartenenza: un mio zio è stato una vittima innocente di camorra. La mia presenza qui nasce dalla stessa spinta che, qualche anno fa, mi portò ad andare nei beni confiscati alle famiglie criminali del mio territorio, a denunciarne gli abusi e a ricevere per questo minacce di morte. Sono qui perché avevo la necessità e il desiderio di vedere con i miei occhi e di sentire con le mie orecchie, per non farmi raccontare la realtà dalla propaganda di guerra, sterile e spesso intellettualmente disonesta, che prolifera nei nostri comodi salotti, davanti a uno smartphone e magari a una Coca-Cola ghiacciata (sì, proprio quella tanto ipocritamente “odiata”).
Per questa mia scelta da uomo libero, da persona queer libera, in queste ore ricevo insulti, minacce e un vomito d’odio sui social da sconosciuti e, peggio ancora, da chi reputavo amico o amica, compagno o compagna di lotta e di vita. Leggo di una tale Amalia De Simone, che non conoscevo prima di oggi, che si affretta a giudicare la vita e l’attivismo altrui mentre noi, qui, la vita la rischiamo davvero, accecata dalla propaganda e dai pregiudizi. Un odio che azzera ogni briciolo di umanità, sorellanza e compassione. Leggo di un tale Andrea Morniroli, persona che da anni dice di operare nel sociale, ma che subito sfrutta la mia presenza qui per lanciare una misera campagna d’odio e di terrore sui social, cercando un posizionamento politico in vista delle prossime regionali, con un cinismo disumano degno del peggior “affarista di guerra”. Una violenza che lo spinge al punto di chiedere, o forse imporre, all’Associazione Trans Napoli, costola politica della cooperativa Dedalus, che Morniroli dirige con la moglie, di prendere pubblicamente le distanze dal comitato Napoli Pride, di cui era parte fino all’altro ieri anche con la condivisione di un comunicato congiunto contro tutte le guerre.
Tutte queste posizioni – strumentali, opportunistiche, ciniche, disumane e incivili – sono unite da un filo comune: l’idea che, tutto sommato, stare sotto le bombe sia la giusta punizione per chi ha deciso liberamente di guardare con i propri occhi e partecipare a un Pride. Alludere poi al fatto che “se la sia cercata” – per citare un amico – è semplicemente vergognoso. È la stessa, identica logica disgustosa con cui si giudica una donna vittima di violenza dalla lunghezza della sua gonna o, a quanto pare, un attivista rispetto alla latitudine di un Pride.
Tutta questa disumanità e questo odio non aiutano a costruire ponti né a favorire il processo di pace; al contrario, alimentano altro odio, alimentano la guerra. Quella guerra, un fuoco che arde e brucia tutto, che forse a tutti questi signori e signore fa comodo per scalare posizioni, posizionarsi politicamente o vendere il Pride al miglior offerente.
Ho sempre amato il Pride, la sua libertà. Ne ho organizzati 21 in 15 anni; ogni Pride per me è come un pezzo di cuore, persino questo di Tel Aviv, che alla fine non si è potuto tenere. Rifarei esattamente tutto allo stesso modo, perché so che il faro che muove il mio attivismo è l’amore per ciò che è giusto.
Nella vita ho affrontato di tutto: aggressioni omofobe, minacce di morte, insulti. Non sarà certo questo odio strumentale a fermarmi.
Spero di tornare presto a casa. Spero che questa terra possa trovare presto la pace. E spero, un giorno, di poter finalmente vivere, insieme a tanti dispensatori d’odio, un favoloso Pride in una Tel Aviv o perché no a Gaza, entrambe libere dalla guerra e dal terrorismo”.